Qualche riflessione dopo gli show milanesi

A quasi 76 anni, Bruce Springsteen potrebbe prendersela comoda. Ha un repertorio sconfinato, una base di fan – soprattutto in Europa – che lo seguirebbe se decidesse di gettarsi tra le fiamme, invece che continuare a fare concerti di tre ore. Ha invece deciso di no: la sua scaletta super consolidata di brani che rammendano i cuori spezzati, che portano chi ascolta in un New Jersey che è terra di tutti, che commuovono ed esaltano, in questo Land of Hope and Dreams Tour, viene arricchita di interventi squisitamente politici, accuse pesanti e dirette all’amministrazione Trump, al suo continuo e quotidiano attacco alla democrazia americana (e alla sicurezza del mondo, visto che, come dice Bruce, si allea con i dittatori e volta le spalle ai suoi alleati). Springsteen non è nuovo all’impegno politico e al sostegno alla working class, che ha cantato in decine di brani, schierandosi apertamente con i democratici, in particolare durante l’era Obama.

Ma in questi “tempi pericolosi” come li ha definiti, ha deciso di prendersi la pesante responsabilità di parlare forte e chiaro contro “un presidente inadeguato e un’amministrazione corrotta e traditrice”, lui che può, dall’alto del suo immane peso mediatico, a nome di tutti coloro che in questi mesi e settimane sono stati presi di mira, arrestati e deportati dagli agenti dell’Ice, l’ormai famigerata agenzia federale Immigration and Customs Enforcement, o delle università sanzionate per non aver seguito la linea ideologica del Presidente. “Sta succedendo adesso”, ha ribadito durante le tappe del tour.
Tour che lo ha portato al suo amato San Siro – a suo dire la miglior arena al mondo dove suonare – quarant’anni dopo la sua prima volta, nel 1985, dove di fatto fu adottato da legioni di seguaci, ben oltre la nicchia che fino ad allora lo aveva osannato sulle riviste specializzate. Da quel rovente giugno milanese la storia d’amore si è ingigantita e approfondita, e negli show del 30 giugno e del 3 luglio, non erano pochi i reduci di quell’incredibile serata (anche chi scrive), ma anche tanti che si sono uniti alla carovana in questi quattro decenni in cui Springsteen è tornato molte volte in Italia, in varie versioni, ogni volta scatenando l’amore dei suoi adepti.

A Milano, in queste due date, ha davvero superato sé stesso per la voce (migliore di quella di molti show più o meno recenti), per carica emotiva, commozione – sempre a chi scrive, è bastata la No Surrender che ha aperto la serata del 30 giugno per sciogliersi in un pianto liberatorio, o Darkness on the Edge of Town, nel secondo show – e per aver saputo coniugare a perfezione il messaggio politico con l’energia vitale e ironica del rock and roll. Il concerto di Springsteen è un rito collettivo, più che una serie di canzoni, una messa in cui la possente E-Street Band, insieme al sacerdote supremo, scatena le energie vitali di chi ascolta, anche di scettici neofiti che non l’avevano mai visto dal vivo. Come in ogni messa, ci sono rituali da rispettare, risposte della platea che non possono mancare: le mani tremolanti, i cori a sostegno di canzoni come Hungry Heart o Thunder Road, o il ruggito della folla sulle note di Badlands, che serve a celebrare Bruce insieme agli applausi.

E quindi, dopo un’ultima, travolgente Rockin’ All Over the World, chi c’era si è portato con sé quella vitale iniezione di speranza, eccitazione, lacrime, sudore e comunanza di entusiasmi, amore, fiducia che, alla fine, ce la faremo a lasciare questa città di perdenti per vincere da qualche altra parte. In America e dappertutto. Sono tempi pericolosi, davvero, ma dopo questi concerti, per l’ennesima volta, siamo tutti abitanti della Terra della Speranza e dei Sogni, quella terra promessa alla quale proprio Springsteen ci ha insegnato a credere.
