
C’era molta attesa – tra i seguaci di Springsteen ma molto meno per chi non è tra queste fila – per l’uscita di Deliver me from nowhere, il film tratto dal libro omonimo di Warren Zanes, con Bruce interpretato da Jeremy Allen White. Una pellicola che racconta la nascita di un album fondamentale per la carriera springsteeniana, Nebraska (il titolo del film e del libro, per chi non lo sapesse, viene dal testo di Open all night, uno dei brani di Nebraska, in cui il cantante chiede al rock and roll di “liberarlo dal nulla”) e che coincide con la prima presa di coscienza dell’artista sulla sua depressione. Sono andato a vederlo a Monterotondo, appena fuori Roma, in una proiezione accompagnata dalle riflessioni di Sandro Portelli, il maggior esperto di musica e cultura popolare americana in Italia, e di Marino Severini, cantante del gruppo dei Gang, dagli anni Ottanta una delle band più politicamente impegnate della scena rock italiana. A loro si è poi unita Patrizia De Rossi, autrice di libri su Springsteen e titolare della prima tesi di laurea mai assegnata su Bruce, perlomeno in Italia.
La conversazione dopo il film si è focalizzata molto su Springsteen e la sua arte e la sua biografia (sempre molto interessante, specie se ad analizzare è Portelli), un po’ meno sul film. Film che regala più di qualche emozione, grazie alle canzoni, all’intensità della recitazione di White, ma anche di Jeremy Strong (che interpreta magistralmente il manager Jon Landau) e di Stephen Graham (nei panni del padre di Bruce, Douglas Springsteen). Ma che – viene da pensare – ha quest’effetto solo se si è fan del Boss, e casomai si conosce la vicenda personale di Bruce in quegli anni. Sottraendo questo elemento cruciale di partecipazione emotiva, che fa venire i brividi quando si vede il crollo psicologico di Bruce, o l’abbraccio con un padre vinto dalla vita, o quando si sentono i capolavori che compongono Nebraska – ma anche le prime tracce di Born in the Usa, composto in parallelo nella solitudine della casa di Colts Neck, New Jersey – Deliver me from nowhere, diventa un film ridotto all’essenziale, nella trama e nei dialoghi stringatissimi. Una vicenda umana e artistica toccante ma raccontata in maniera non particolarmente travolgente o alzando lo sguardo sul mondo circostante. A differenza, ad esempio, di A complete unknown, dedicato agli esordi di Bob Dylan, la pellicola diretta da Scott Cooper non dice nulla sul contesto sociale/storico in cui si svolgono i fatti, limitandosi a pochi, minuscoli ambienti che contengono i tormenti di Springsteen, nel 1981/82 già famoso, ma ancora non superstar mondiale.
Resta alla fine il ritratto di un gigante della musica che ammette e combatte la sua fragilità, e di come tutto questo sia finito in un album memorabile, un passaggio cruciale nella sua carriera e nella vicenda della musica e della cultura popolare americane. Un artista e un’opera in bilico perfetto tra impegno, introspezione, passato e presente: Severini lo ha giustamente paragonato a un funambolo. Anche solo per (ri)scoprire Nebraska e le infinite sfaccettature che sono alla sua radice, Deliver me from nowhere va visto.